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Minnucci, Alberico Gentili iuris interpres della prima Età moderna, Bologna 2011 (Archivio per la Storia del diritto medioevale e moderno; Studi e Testi, 16)

Alberico Gentili (San Ginesio 1552 – Londra 1608). Giurista di fama, esule in Inghilterra nel 1580 per motivi religiosi e regius professor di civil law a Oxford dal 1587, il Gentili è noto alla letteratura specialistica soprattutto per aver pubblicato, in particolare, i De iuris interpretibus Dialogi sex (1582), e i De iure belli libri tres (1598): due opere che hanno spesso indotto gli studiosi a considerarlo, rispettivamente, come uno strenuo difensore del “mos italicus iura docendi” e uno dei padri fondatori del diritto internazionale moderno.

Come era già emerso da un precedente studio dell’A. (Alberico Gentili tra mos italicus e mos gallicus. L’inedito Commentario ad legem juliam de adulteriis, Monduzzi, Bologna 2002), il Gentili, nel corso della sua lunga permanenza in Inghilterra, si era parzialmente allontanato dalla metodologia interpretativa teorizzata nei Dialogi del 1582.

Dalla lettura dei Disputationum de nuptiis libri VII (1601), con particolare riferimento al I Libro intitolato “qui est de interprete” e delle Disputationes De libris iuris canonici e De libris iuris civilis (1605), emerge un Gentili non più pedissequamente ancorato ad una lettura evolutiva del corpus iuris senza peraltro dar credito eccessivo ai contributi provenienti dalle altre discipline, ma un giurista che ridefinisce la funzione della scientia civilis da lui professata. Egli ora non ignora che, per un corretto e proficuo esercizio del suo ruolo, occorre avvicinarsi ai testi anche con un atteggiamento da storico e da filologo, né tralascia di abbeverarsi ad un amplissimo ventaglio di fonti (storiche, filosofiche, teologiche) sedimentatesi nel corso dei secoli, fonti da lui ritenute, solo vent’anni prima, di scarso interesse per il giureconsulto. Il giurista, pertanto, nell’ottica del Gentili di inizio XVII secolo, non è più un puro e semplice interprete del diritto giustinianeo, perché ne deriverebbe un “usus corruptus disciplinae nostrae” ma, armato di uno strumentario amplissimo, è un vero e proprio interpres iuris.

Esule per motivi religiosi, figlio di una cultura giuridica strettamente legata ad un prestigiosissimo passato, il Gentili deve confrontarsi con una realtà politica europea profondamente mutata. L’affermazione della libertas religionis; l’individuazione di una linea di demarcazione fra lo spirituale e il temporale, tra fòro interno e fòro esterno; il riconoscimento della potestà ecclesiastica che può espletarsi unicamente nel suo proprio ambito; il ricorso, attraverso un continuo sforzo interpretativo, ai principi del diritto naturale inteso come complesso di regole di giustizia e di valori etico-sociali universali, fondati sulla razionalità umana, senza peraltro ignorare l’esistenza del diritto divino – diritti dai quali nemmeno il Sovrano può prescindere – costituiscono alcune delle basi teoriche sulle quali si inizia faticosamente a costruire l’Europa moderna. E Gentili ne è pienamente partecipe. Nella sua ottica il giurista, quale sacerdos iustitiae – e il richiamo esplicito è a Ulpiano nell’incipit del Digesto – totalmente immerso nelle vicende della storia, ed attento ai suoi continui e profondissimi mutamenti, è l’unico in grado di proporsi come “mediatore e traduttore” del diritto: colui che distinguendo l’equo dall’iniquo, il giusto dall’ingiusto, può ricercare i cardini sui quali fondare l’edificio dell’umana giustizia.

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